"Felice chi ha potuto investigare le cause delle cose e mettere sotto i piedi le paure tutte, il fato inesorabile, il risuonare dell'avido Acheronte. Fortunato anche colui che conosce gli dei agricoli, Pan e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle. Quell'uomo non lo possono piegare né i fasci popolari né la porpora dei re, la discordia che inquieta i fratelli sleali o i Daci che calano dal Danubio, non le vicende di Roma e i regni condannati alla distruzione...I frutti portati dai rami, prodotti volentieri e spontaneamente dalle sue campagne, se li raccoglie: nulla sa delle leggi di ferro, dei deliri del foro, dei pubblici archivi" (Virgilio, Georgiche)
E' questo un posto dove si sta bene i giorni si avvicendano sereni le notti han poche luci un po' di luna e qualche lucciola che ama civettar con le falene. Si impara il lavorio delle formiche e delle apine loro degne amiche Si ascoltano i discorsi dei "saltamartini" i richiami dei grilli e gli infiniti cori che giungono dai pini E' questo un posto dove si sta bene tutto vive all'unisono in armonia ancestrale che non conosce il male non giudica e sa della vita quanto vale
(poesia che ha ricevuto il punteggio massimo da almeno uno dei giurati preselettivi e qualitativi del concorso "Premio Contemporanea" nell'ambito di AlexandriaScriptoriFestival)
Verrò da te con i miei passi d'aria ai piedi del tuo trono di nuvole mia dea. M'inchinerò al tuo divino silenzio pullulante di voci lontane ed echi di grida umane. Chiederemo ad orfeo ancora un canto uno solo perchè duri l'incanto di averti incontrata fra i sospiri del tempio che ti ha udito parlare con Zeus e i Titani gli dei concepiti da sogni ineffabili e umani.
Oggi è una giornata splendida e spero che il sole sciolga in fretta la neve sopra il verde dei boschi alle falde delle montagne.
In questa rasserenante cornice sono onorata e felice di pubblicare questa splendida poesia di Graziella Cappelli di cui sono orgogliosamente la dedicataria.
Un regalo supergradito!!!
Grazie deliziosa poetessa Graziella!!!!
Fresca e cristallina è la sorgente, nasce improvvisa zampilla tra i sassi e cattura i raggi del sole. Gioiosa spumeggia salta e scende, si allarga e prende forma. Corre, senza sosta lungo i pendii di rocce antiche e levigate. Bagna rovi e cespugli, si insinua nel muschio odoroso di foglie, schiamazza e trasparente si riposa in pozze ombrose di larici ed abeti. Bacche si affacciano negli specchi d'aghi galleggianti, inquieta scroscia tra rupi assolate. Sembra arrivata. E' presto. Così si increspa e indugia tra le felci, incantata, guarda corolle di giunchiglie, prende foglie e monete di sassi, maestosa si trascina sotto i ponti. Ride del suo fragore, nuvole nebulizzate intorno. Canta nello spettacolo senza sipario, attira battiti d'ali, stupisce ancora occhi di animali furtivi. Poi stanca si placa, sonnolenta si snoda e si allunga alla pianura. Solitaria aspetta, compagna del cielo aperto. Si affacciano casolari, cipressi sentinella, il vento l'accarezza e la incoraggia nel suo giro inesauribile di vita.
- Nessuno mi
crederebbe, mio caro Fulmine – disse il cacciatore guardando il suo cane che,
scodinzolando, ricambiava lo sguardo con occhi umidi di devozione.
Caricò in spalla il
fucile e s’incamminò verso casa. La musicalità dell’acqua del ruscello faceva
da sottofondo ai consueti rumori del bosco e accompagnava il suo passo
appesantito dall’equipaggiamento di caccia.
Quello che aveva
visto quel mattino occupava interamente la sua mente.
Non poteva pensare ad
altro.
Si voltò ancora una
volta a guardare il ciglio di quel burrone. Cercò di dare un ordine cronologico
agli eventi accaduti in così poco tempo.
- Tu non hai colpa
Fulmine – disse. - Tu non potevi sapere. Hai fatto solo il tuo
dovere: stanare la preda affinchè io la potessi colpire -.
Si ricordò del cane
che correva e si fermava ad intermittenza. Poi aveva sentito un frullo
d’ali sopra la testa ed immediatamente aveva fatto fuoco. Era
seguito un silenzio di ghiaccio. Sembrava che il bosco avesse smesso di
respirare.
Il cane si era
portato festosamente sull’orlo del burrone.
- Ahi, laggiù
non la potrai recuperare la tua preda – gli aveva gridato. Poi lo aveva
raggiunto e si era sporto pure lui a guardare. Ciò che si presentò ai suoi
occhi lo aveva riempito di stupore e di angoscia insieme. Il cuore gli batteva
all’impazzata e un sudore freddo lo aveva pervaso per tutto il corpo. Era
rimasto così, impietrito, per un tempo indefinito. Mai avrebbe dimenticato
quella visione.
Una figura femminile
giaceva, inerte, fra i rovi, in fondo al burrone.
Con le mani tremanti
aveva estratto dallo zaino il canocchiale per verificare meglio.
Il colore delle vesti
si confondeva con quello delle foglie degli arbusti, ma quello che lui
poteva vedere chiaramente era il viso. Diafano. Occhi chiusi. La bocca
semiaperta in una smorfia di dolore. Immobile. Sulla fronte il segno dello
sparo e un sangue rosato che scendeva in rigagnoli sul viso andando a
disperdersi dietro il collo.
Tutto questo non
riusciva, tuttavia, a deturpare la bellezza che quell’immagine sprigionava.
Mai aveva visto nulla
di così bello e doloroso assieme.
La fissava,
ipnotizzato, mentre sentiva nella sua mente qualcosa che si apriva, qualcosa
che risaliva in superficie da profondità mai sospettate. Era una strana
sensazione, un fastidio incontrollabile, un ancestrale disagio da soffocare, da
rimuovere. Barcollava. Un appiglio… cercava disperatamente un appiglio.
Si era inginocchiato
per calmare il tremore delle gambe e, dopo aver riposto il canocchiale, aveva
serrato il capo fra le mani.
All’improvviso si era
levato un forte vento facendo vibrare il bosco e trascinando con sè tutto ciò
che non si poteva opporre alla sua forza.
Il cane gli si era
accucciato accanto, impaurito, mentre egli si riparava il viso con il bavero
della giacca, rimanendo immobile, in attesa che tornasse la quiete.
Poi, finalmente, il
vento si era calmato e il bosco aveva ritrovato la sua pace.
- Devo denunciare
l’accaduto – aveva pensato. - E’ colpa mia. O forse no. Io ho sparato, è vero,
ma ho sparato in aria, ad un volatile. Può averla colpita qualcun altro prima
di me. Ma io non posso lasciarla laggiù. Devono portarla via. Dio mio! -.
Alzato il capo, di
nuovo aveva guardato giù.
La visione era
sparita.
Sui rovi, dove era
caduta la figura femminile ferita a morte, erano rimasti impigliati dei petali
di fiori abbandonati da quella folata di vento.
Aveva sentito il suo
cuore gonfiarsi e restringersi come un mantice e, attonito, cercava di capire.
Ma nella sua mente tutto era fermo ed immobile come la visione di quel viso che
non lo abbandonava.
- E’ stato un
brutto sogno – si disse. - Un sogno ad occhi aperti -.
Presto sarebbe
arrivato a casa. Gli avrebbero chiesto come mai così in anticipo. Ma lui non
avrebbe mai potuto spiegare a nessuno il perché.
- Capisci, Fulmine –
diceva - se io raccontassi ciò che ho visto perderei senz’altro la mia
buona reputazione, mi prenderebbero per un pazzo visionario, la mia credibilità
sarebbe compromessa per sempre. Mi sembra già di sentire le loro risate di
scherno.
Io non potrò, non
dovrò dirlo a nessuno. Questo sarà per sempre il mio tremendo segreto. Solo
mio.
Credo, inoltre, che
smetterò di andare a caccia, troverò qualche scusa, dirò che l’umidità del
bosco mi procura i reumatismi. E’ una scusa credibile.
Stammi
vicino, Fulmine, perché oggi, io e te… abbiamo ucciso… una fata -.
S'impara fin dai primi anni di scuola e trovo sempre meravigliosa questa poesia di una musicalità squisita
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove sui mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, sui ginepri folti di coccole aulenti, piove sui nostri volti silvani, piove sulle nostre mani ignude, sui nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude, o Ermione Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitio che dura e varia nell'aria secondo le fronde più rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, nè il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d'arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come un foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L'accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall'umida ombra remota. più sordo e più fioco s'allenta, si spegne. Sola una nota ancora trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s'ode voce del mare. Or s'ode su tutta la fronda crosciare l'argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell'aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell'ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le palpebre gli occhi son come polle tra l'erbe, i denti negli alveoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i malleoli c'intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri volti silvani, piove sulle nostre mani ignude, sui nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione.
Nella casa della mia
infanzia il sole faceva capolino solo in rari momenti della giornata.
Al
cortile, poi, chiuso com'era fra le mura delle case vicine, era preclusa la
gioia di quei raggi benefici.
Solo nelle giornate di cielo terso mi incantavo
a guardare il quadrato di luce azzurra che spiccava fra i tetti. Sembrava una
piscina rovesciata. Veniva voglia di tuffarsi dentro se non altro per sfuggire
all'odore di muffa che, in quel luogo, impregnava le narici.
Mia madre
avrebbe voluto mettere dei gerani sul davanzale della finestra che dava su quel
cortile - tanto per dare un po' di colore all'ambiente - diceva. Una volta ci
aveva provato. L'attesa di vedere i bei fiori rosa, però, non era stata
premiata. I gerani avevano partorito solo grandi monocrome foglie verdi.
Quel
luogo angusto era però rallegrato ogni primavera dall'arrivo delle
rondini.
Costruivano i loro nidi sotto i tetti o sotto i poggioli di legno.
Quando mia madre si accorgeva del loro arrivo ce lo annunciava felice come se
fossero arrivati dei cari parenti. Io penso che si sentisse un po' a loro
affine. Le rondini, del resto, come lei, non facevano altro che prodigarsi per i
loro figli.
Quel piccolo cortile era lo spazio più vicino che avevamo per
giocare. E cercavamo di sfruttarlo al meglio. Io giocavo a palla facendola
rimbalzare sul muro oppure, se eravamo in quattro o cinque, giocavamo ad
"asino". Mia madre ci lasciava fare per un po', ma poi ci richiamava perché
aveva paura che disturbassimo i vicini. Sapeva che il pittore di fronte non
gradiva i nostri strilli. Gli disturbavano la concentrazione. Poi c'era un altro
problema: quella scala pericolante che portava all'appartamento disabitato del
lato Nord. Appena mia madre si accorgeva che mettevamo il piede sul primo
gradino ci urlava di non continuare perché sarebbe uscita di sicuro la strega da
una di quelle porte di legno che davano sul poggiolo. Noi rimanevamo un po'
perplessi, dibattuti fra curiosità e timore. Ma ubbidivamo. Perché sapevamo che
era meglio ubbidire. E basta.
Appena poteva mia madre ci portava fuori, in
qualche posto tranquillo, in mezzo al verde, nei dintorni del paese.
- E' per
la vostra salute - diceva.
Lì, potevamo correre e giocare felici all'aria
aperta. Venivano anche dei nostri coetanei e passavamo dei bei pomeriggi. Mia
madre sferruzzava seduta su un muretto conversando con altre mamme che avevano
avuto la stessa idea.
Spesso, per raggiungere quei posti, percorrevamo una
strada bianca e polverosa che passava per le campagne.
Arrivati ad un certo
punto, adiacente alla strada e all'inizio della distesa delle campagne, si
presentava allo sguardo del passante una casetta dalle pareti color rosa
pallido, leggermente scrostate, con le imposte di un verde oliva scolorite qua e
là.
Quella casetta si distingueva dalle altre del paese per la sua posizione
isolata e per il suo stile vagamente signorile. Era senz'altro disabitata. Le
imposte erano sempre chiuse e appariva, ai miei occhi di bambina, come qualcosa
di prezioso ed inspiegabilmente abbandonato.
Stava lì, come una nobile
vecchia signora pensierosa, immobile, in un suo dignitoso silenzio.
- Non ci
abita nessuno in quella casa? - chiedevo a mia madre.
- No, non ci abita
nessuno - Rispondeva.
- Come mai? - insistevo.
- Perché… quella è… la
casa delle fate - replicava tranquilla e serena mia madre.
- E le fate non si
vedono? - continuavo incuriosita.
- No, le fate non si fanno mai vedere dagli
uomini - Era la risposta.
- Nessuno può entrare lì dentro? -
- No, guai,
le fate si arrabbierebbero moltissimo -.
Mi bastava così. Non volevo andare
oltre. Era meglio fermarsi lì. Non volevo sciorinare le altre domande che
affollavano la mia mente. Le ricacciavo tutte indietro. Lei aveva detto così. E
io volevo crederci. Silenzio, quindi e…via con la fantasia!
Immaginavo un
turbinio di veli e uno scintillio di colori dentro le misteriose stanze della
casetta rosa.
Tutto, oltre quelle imposte chiuse, doveva essere evanescente e
affascinante. E poi, quello che potevo immaginare io era probabilmente ben poca
cosa in confronto al mondo meraviglioso che doveva esserci là
dentro.
All'interno di quella casa ogni cosa doveva essere stupefacente e
tanto diversa da quello che si poteva vedere nelle normali nostre case. Perfino
i fiori nei vasi, probabilmente, erano fiori particolari che solo le fate
sapevano dove raccogliere.
Ero sicura che la loro vita si svolgeva in un
armonioso intreccio di serenità, pace e benessere.
E tutto questo era
precluso ai comuni mortali.
Mentre oltrepassavo la casetta, a volte giravo
indietro il capo per vedere se, per qualche provvidenziale sbadataggine di
qualche fata, un lembo di velo si fosse impigliato da qualche parte. Macchè, mai
niente. Le fate erano molto furbe e sapevano bene come non farsi
scoprire.
Poi, nella concretezza dei giochi con i coetanei, per un po' tutto
questo veniva accantonato negli angoli reconditi della mente, ma quando si
ritornava a casa, passando davanti alla "casa delle fate" mi sembrava che
perfino gli ultimi raggi di sole indugiassero su quelle imposte superbamente
chiuse, quasi che anche loro avessero voglia di penetrare, come me, in quel
mondo proibito.
Intanto le stagioni si avvicendavano, calamitando i nostri
giorni e i nostri anni.
La "casa delle fate" era sempre là. Le imposte
chiuse. I colori sempre più sbiaditi.
Le vicende della vita mi portarono
fuori dal mio paese.
Ci ritorno appena posso.
Vado al cimitero a salutare
mia madre. L'ultima volta ho voluto percorrere la vecchia strada al limitare
delle campagne. Ora è una grande strada asfaltata. Ho cercato con lo sguardo "la casa delle fate". Ma la casetta rosa dalle imposte verde oliva, ahimè, non c'è
più! Al suo posto sorge una bella casa moderna. Rallentando l'andatura posso
notare, su un terrazzino, un triciclo e dei giochi.
D'impulso accelero.
Qualche minuto più tardi, mia madre mi sorride dalla foto della lapide.
Ricambio, con la solita strizza al cuore.
- Hanno distrutto la casa delle
fate - le dico. - E i bambini che giocano nella nuova casa, non lo sapranno
mai -.