Nella casa della mia infanzia il sole faceva capolino solo in rari momenti della giornata. Al cortile, poi, chiuso com'era fra le mura delle case vicine, era preclusa la gioia di quei raggi benefici. Solo nelle giornate di cielo terso mi incantavo a guardare il quadrato di luce azzurra che spiccava fra i tetti. Sembrava una piscina rovesciata. Veniva voglia di tuffarsi dentro se non altro per sfuggire all'odore di muffa che, in quel luogo, impregnava le narici. Mia madre avrebbe voluto mettere dei gerani sul davanzale della finestra che dava su quel cortile - tanto per dare un po' di colore all'ambiente - diceva. Una volta ci aveva provato. L'attesa di vedere i bei fiori rosa, però, non era stata premiata. I gerani avevano partorito solo grandi monocrome foglie verdi. Quel luogo angusto era però rallegrato ogni primavera dall'arrivo delle rondini. Costruivano i loro nidi sotto i tetti o sotto i poggioli di legno. Quando mia madre si accorgeva del loro arrivo ce lo annunciava felice come se fossero arrivati dei cari parenti. Io penso che si sentisse un po' a loro affine. Le rondini, del resto, come lei, non facevano altro che prodigarsi per i loro figli. Quel piccolo cortile era lo spazio più vicino che avevamo per giocare. E cercavamo di sfruttarlo al meglio. Io giocavo a palla facendola rimbalzare sul muro oppure, se eravamo in quattro o cinque, giocavamo ad "asino". Mia madre ci lasciava fare per un po', ma poi ci richiamava perché aveva paura che disturbassimo i vicini. Sapeva che il pittore di fronte non gradiva i nostri strilli. Gli disturbavano la concentrazione. Poi c'era un altro problema: quella scala pericolante che portava all'appartamento disabitato del lato Nord. Appena mia madre si accorgeva che mettevamo il piede sul primo gradino ci urlava di non continuare perché sarebbe uscita di sicuro la strega da una di quelle porte di legno che davano sul poggiolo. Noi rimanevamo un po' perplessi, dibattuti fra curiosità e timore. Ma ubbidivamo. Perché sapevamo che era meglio ubbidire. E basta. Appena poteva mia madre ci portava fuori, in qualche posto tranquillo, in mezzo al verde, nei dintorni del paese. - E' per la vostra salute - diceva. Lì, potevamo correre e giocare felici all'aria aperta. Venivano anche dei nostri coetanei e passavamo dei bei pomeriggi. Mia madre sferruzzava seduta su un muretto conversando con altre mamme che avevano avuto la stessa idea. Spesso, per raggiungere quei posti, percorrevamo una strada bianca e polverosa che passava per le campagne. Arrivati ad un certo punto, adiacente alla strada e all'inizio della distesa delle campagne, si presentava allo sguardo del passante una casetta dalle pareti color rosa pallido, leggermente scrostate, con le imposte di un verde oliva scolorite qua e là. Quella casetta si distingueva dalle altre del paese per la sua posizione isolata e per il suo stile vagamente signorile. Era senz'altro disabitata. Le imposte erano sempre chiuse e appariva, ai miei occhi di bambina, come qualcosa di prezioso ed inspiegabilmente abbandonato. Stava lì, come una nobile vecchia signora pensierosa, immobile, in un suo dignitoso silenzio. - Non ci abita nessuno in quella casa? - chiedevo a mia madre. - No, non ci abita nessuno - Rispondeva. - Come mai? - insistevo. - Perché… quella è… la casa delle fate - replicava tranquilla e serena mia madre. - E le fate non si vedono? - continuavo incuriosita. - No, le fate non si fanno mai vedere dagli uomini - Era la risposta. - Nessuno può entrare lì dentro? - - No, guai, le fate si arrabbierebbero moltissimo -. Mi bastava così. Non volevo andare oltre. Era meglio fermarsi lì. Non volevo sciorinare le altre domande che affollavano la mia mente. Le ricacciavo tutte indietro. Lei aveva detto così. E io volevo crederci. Silenzio, quindi e…via con la fantasia! Immaginavo un turbinio di veli e uno scintillio di colori dentro le misteriose stanze della casetta rosa. Tutto, oltre quelle imposte chiuse, doveva essere evanescente e affascinante. E poi, quello che potevo immaginare io era probabilmente ben poca cosa in confronto al mondo meraviglioso che doveva esserci là dentro. All'interno di quella casa ogni cosa doveva essere stupefacente e tanto diversa da quello che si poteva vedere nelle normali nostre case. Perfino i fiori nei vasi, probabilmente, erano fiori particolari che solo le fate sapevano dove raccogliere. Ero sicura che la loro vita si svolgeva in un armonioso intreccio di serenità, pace e benessere. E tutto questo era precluso ai comuni mortali. Mentre oltrepassavo la casetta, a volte giravo indietro il capo per vedere se, per qualche provvidenziale sbadataggine di qualche fata, un lembo di velo si fosse impigliato da qualche parte. Macchè, mai niente. Le fate erano molto furbe e sapevano bene come non farsi scoprire. Poi, nella concretezza dei giochi con i coetanei, per un po' tutto questo veniva accantonato negli angoli reconditi della mente, ma quando si ritornava a casa, passando davanti alla "casa delle fate" mi sembrava che perfino gli ultimi raggi di sole indugiassero su quelle imposte superbamente chiuse, quasi che anche loro avessero voglia di penetrare, come me, in quel mondo proibito. Intanto le stagioni si avvicendavano, calamitando i nostri giorni e i nostri anni. La "casa delle fate" era sempre là. Le imposte chiuse. I colori sempre più sbiaditi. Le vicende della vita mi portarono fuori dal mio paese. Ci ritorno appena posso. Vado al cimitero a salutare mia madre. L'ultima volta ho voluto percorrere la vecchia strada al limitare delle campagne. Ora è una grande strada asfaltata. Ho cercato con lo sguardo "la casa delle fate". Ma la casetta rosa dalle imposte verde oliva, ahimè, non c'è più! Al suo posto sorge una bella casa moderna. Rallentando l'andatura posso notare, su un terrazzino, un triciclo e dei giochi. D'impulso accelero. Qualche minuto più tardi, mia madre mi sorride dalla foto della lapide. Ricambio, con la solita strizza al cuore. - Hanno distrutto la casa delle fate - le dico. - E i bambini che giocano nella nuova casa, non lo sapranno mai -. - Giovanna Giordani - |
domenica 12 maggio 2013
LA CASA DELLE FATE
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Giovanna, ho appena concluso la lettura del tuo "racconto", ma le suggestioni e le emozioni sono ancora tutte qui intorno a me. Ho virgolettato il termine racconto perché è molto di più, è memoria, riflessione, tenerezza. Quel bagaglio ricchissimo e importante che arricchisce la vita e dal quale attingiamo continuamente.
RispondiEliminaBello leggerti.
Buona settimana.
Piera
Ho gradito molto questo tuo commento, Piera!! Un grazie grande e buonissima settimana anche a te!
RispondiEliminaGiovanna
Cara Giovanna, un racconto colmo di magia e fascino.
RispondiEliminaGrazie.
Cari saluti
Graziella
Un grazie grande, Graziella!!
RispondiEliminaIo ho voluto salvare la mia "casa delle fate", un'antica dimora che ormai cadeva a pezzi. Con la buona uscita e i risparmi ho fatto il tetto che cadeva a pezzi e le fondamenta, ho sistemato le camere pericolanti e adesso è una nostra radice viva. Non potevo morire e abbandonarla, ci sono i miei nipoti che se la godranno. Il tuo post è bellissimo e triste, è proprio così che ci si sente quando scompare qualcosa di prezioso della nostra vecchia vita felice: come se l'anima soffocasse.
RispondiEliminaGrazie Mimma! Fortunati i tuoi nipoti ad avere una meravigliosa zia come te! Abbraccio, ciao
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