…"La madre, oltre che una donna pia e buona, era una convinta vegetariana e, per togliere al figlio il desiderio della carne, lo condusse a vedere l'interno di un mattatoio, come ricorda Alphonse de Lamartine nelle "Confidenze": " Una profonda pietà mista d'orrore mi prese e domandai d'andarmene via. L'idea di quelle scene orribili e disgustose, preliminari obbligati dei piatti di carne che vedevo serviti a tavola, mi fece prendere l'alimentazione animale in orrore... Io non vissi fino a dodici anni che di pane, di latticini, d'erbaggi e di frutta. La mia salute non ne fu meno forte, né il mio sviluppo meno rapido, e forse dovetti a questo regime la purezza dei lineamenti, la sensibilità squisita d'impressioni e la dolcezza serena di umore e di carattere che io conservai sino a quell'epoca. " -.-.-.-.-.-.-
C'è un'immagine, fra le innumerevoli che percorrono la mia mente, che mi sorprende talvolta, inaspettatamente, nei momenti più imprevedibili. E' la visione che ebbi un pomeriggio di prima estate durante una passeggiata su un altipiano dove m'imbattei in una malga dal tipico aspetto rustico, ma ordinata e pulita. Non ero avvezza, fin da piccola, a vedere da vicino gli animali da allevamento e quando mi capitava l'occasione di trovarmeli davanti è sempre stato per me un momento epifanico. Le mucche, ad esempio, con i loro tondi corpi paciosi, macchiati di quei colori caldi e contrastanti, con quei musi dagli occhi buoni e innocenti mi ispiravano sempre un misto di gioia e tristezza assieme. La prima volta che vidi un gregge ero già in là con gli anni e non so descrivere l'emozione, la meraviglia alla vista di quelle bestiole che si muovevano fianco a fianco in un cammino di reciproca innata solidarietà; e come dimenticare lo struggente belato delle madri che richiamavano a sé gli agnellini? Un presepio vivente che mi riportava all'infanzia lontana. Quel pomeriggio, dunque, capitai a quella malga accanto alla quale stava una bassa costruzione. Mi accostai incuriosita allo steccato che la circondava e fui accolta da un piccolo maialino che mi venne a salutare sfregando sul recinto il suo musetto rosa dagli occhietti gonfi, a mandorla, nella speranza, io supposi, di ricevere qualcosa da mangiare; ma, sfortunatamente, non avevo niente con me e mi limitai a guardarlo con un misto di compassione e stupore. Nell'angolo del cortile notai inoltre tre o quattro maiali accovacciati l'uno accanto all'altro quasi abbracciati, che sembravano dormire, come vinti da una grande spossatezza e indifferenti al mondo. Non potei non pensare alla loro sorte. E fui pervasa da una subitanea malinconia. Voi dite che sono patetica? Può essere, ma dirò di più: improvvisamente dall'oscurità di un'apertura della casetta sbucò fuori un maialone roseo e rubicondo che si mise a saltellare come in preda ad una gioia frenetica. Cominciò ad urtare col muso i maiali addormentati come volesse svegliarli per farli partecipi della sua dirompente allegrezza. Ma i suoi tentativi di comunicare la sua letizia cadevano nel rifiuto totale da parte di questi ultimi, ché proprio non volevano saperne delle sue avances. Lo guardavo ballonzolare imperterrito, mentre i dormienti sembravano ammonirlo con la loro immobilità. Il messaggio mi sembrò chiaro: "non capisci, ingenuo, che per noi c'è poco da stare allegri?" Ma lui, testardo, continuava a "ballare" emettendo gioiosi grugniti. Mi discostai per entrare nella malga al cui soffitto stavano appesi dei salumi di varia grossezza e, alla loro vista, sentii dentro di me un lamento che saliva strisciando da non so dove. Bevvi un caffè e me ne tornai a casa con una pezza di formaggio. Forse vi farò sorridere ancora, ma mi capita ogni tanto, magari quando sono al supermercato o sto preparando il pranzo, di rivedere quel giocondo maiale saltellare goffamente con quel suo corpo buffo, roseo e pesante, voglioso di partecipare ai suoi compagni la sua gioia di vivere, ignaro del perché, la sua gioia, veniva così snobbata e incompresa dai suoi simili.
VORREI RINGRAZIARE DI CUORE I 58 TESORI DI PERSONE CHE HANNO FIRMATO LA MIA PETIZIONE CONTRO LE GUERRE.
SPERO TANTO CHE IL NUMERO AUMENTI.
NELLA CERTEZZA CHE NON BISOGNA MAI RINUNCIARE AI SOGNI
UN ABBRACCIO RICONOSCENTE
Giovanna
P.S. E' una gioia grande vedere anche le firme dei giovani, unica speranza di questa umanità travagliata.
Mi preme ringraziare anche il Titolare del sito Poetare che ha inserito il link nella sezione Concorsi del suo sito.
Ed oggi ho l'onore di avere mio ospite un ottimo poeta nonchè squisita persona PIERO COLONNA ROMANO
Vita sogno, sogno vita. Come di specchi in gioco,
s'intreccian vita e sogno,
grovigli di speranze, certezze ed illusioni.
Se sia la vita un sogno o il sogno vera vita
rimane un dubbio arcano che macera la mente.
Così pur ci ripaga
per questa vita il sogno.
Concreto come quella,
arriva inaspettato,
da siti oscuri in notti
ci è stato regalato,
e a siti ignoti alfine
nell'alba tornerà.
Così pure la vita
è inaspettato dono.
Percorso ch'è obbligato,
e a un termine votato,
pure nel suo finire
v'è alcuna differenza
sia lieta o addolorata
di certo finirà.
Son specchi e all'infinito
raddoppiano emozioni,
e ad inseguire sogni
viviam la nostra vita.
Sembrano e vita e sogni
eterei fantasmi,
è dal pensier che forse
l'inganno nascerà.
C’era una volta un bottone nero
che capitò per caso in una scatola di latta assieme a una gran quantità di
bottoni colorati che si rimiravano l’un l’altro.
Al bottone nero nessuno rivolgeva
la parola ed egli un giorno radunò tutto il suo coraggio e chiese ai suoi
compagni: - che cosa vi ho fatto di male per meritare questa vostra
indifferenza? –
Quelli si guardarono di sottecchi
(veramente si dovrebbe dire da sotto i buchetti che avevano in mezzo alle loro forme
geometriche varie, tonda, quadrata, romboidale ecc.) finchè uno, un po’ più
grosso degli altri e coperto di pietruzze luccicanti, rispose:
-Veramente tu non ci hai fatto niente di male, ma
sei così nero e insignificante che non si capisce come mai ti abbiano messo in
nostra compagnia. Guarda, per esempio, quel bottone tutto dorato, com’è solare,
lui aspetta di essere esposto quanto prima in bella mostra su di una importante
giacca blu. –
Il bottone nero girò gli
occhietti verso il bottone dorato e quasi rimase abbagliato dallo splendore che
sprigionava e così andò a rannicchiarsi
mogio mogio in fondo all’angolo della scatola senza più replicare.
Qualche giorno dopo, mentre tutti
i bottoni stavano facendo il sonnellino pomeridiano, la scatola venne improvvisamente
scoperchiata e una mano femminile s’intrufolò con decisione fra i bottoni
estraendone a manciate e disponendoli su un tavolo ricoperto da un drappo di
stoffa bianca.
- Questo no, questo neanche,
questo è troppo grande, questo è troppo piccolo, questo luccica troppo, questo
è troppo azzurro, questo è troppo rosso, questo è troppo giallo – e così quella
voce femminile mano a mano che scartava i bottoni che non erano di suo gusto li
faceva ricadere con un lieve tonfo nella scatola dalla quale li aveva tolti.
Sembrava proprio che quella
persona non trovasse ciò che desiderava.
Il bottone nero stava
rannicchiato nel suo angolino fermo fermo ed osservava tutto questo trambusto
con un po’ di timore.
Ad un certo punto nell’aria
risuonò un’esclamazione di giubilo e in quel mentre il nostro bottone si sentì
sollevare repentinamente dal suo luogo appartato e venne adagiato delicatamente su quella tela
bianca dove i suoi compagni erano stati
esaminati.
- Eccolo – disse la stessa voce di prima – è
quello che mi mancava, per fortuna l’ho ritrovato, ora il vestito potrà essere
finalmente confezionato come si deve -.
Il bottone nero capì che non
sarebbe più tornato assieme agli altri compagni nella scatola e si guardò
intorno. Oh, meraviglia! Sul tavolo c’erano altri sette bottoni uguali a lui
che lo guardavano sorridenti.
- Ma dove ti eri cacciato? – chiese
uno dei sette.
- Beh, non lo so, non ricordo
niente, forse ero caduto e ho battuto la testa e qualcuno mi ha visto e messo
nella scatola assieme a tutti quei fratelli colorati - .
- Va bene, va bene - disse
l’altro bottone – l’importante è che ora Rosa ti abbia trovato perché credo
stia preparando qualcosa di speciale per noi.
Rosa, come avrete sicuramente già
capito, era quell’essere umano che aveva scombussolato quella pacifica giornata
all’interno della scatola di latta.
Ora, però, credo sia giunto il momento di dare un
nome al nostro bottone nero e così lo chiameremo Cico.
I giorni passavano e Cico con i
suoi sette compagni neri stavano sempre assieme in una nuova scatolina di
cartone molto più piccola della scatola di latta.
Trascorrevano il tempo a
chiacchierare del più e del meno, raccontando ognuno qualche passata avventura,
più o meno divertente, e si sentivano in sintonia.
Ogni tanto la scatolina di cartone
veniva spostata di qua o di là provocando così il solletico ai bottoni neri con
conseguenti rumorose risate degli stessi.
Un giorno capitò un fatto che era
destinato a rimanere per sempre nei ricordi dei bottoni colorati e di quelli
neri.
Sentirono all’esterno del loro
involucro un tramestio che non prometteva niente di buono. Ad un certo punto qualcuno prese la scatolina
di cartone e, tolto il coperchio, rovesciò violentemente il contenuto sul
tavolo.
- Bottoni! – sghignazzò una voce con
tono sprezzante mentre con una manata li stava scaraventando a terra.
Stessa sorte subirono anche i bottoni colorati
della scatola di latta che, involontariamente, si vennero a trovare a tu per tu
con i bottoni neri.
- Che disastro, ma cosa sta
succedendo? – si chiedevano tutti i bottoni assai spaventati e tremanti, sparsi
sul pavimento.
C’è anche da dire che la stanza
era tutta buia e quasi non si distinguevano più i bottoni colorati da quelli
neri. Tutti i bottoni però si accorsero che fra di loro stava nascendo un caldo
sentimento di solidarietà ed amicizia che li univa in quel momento di comune
pericolo.
All’improvviso si levò nell’aria
un urlo acuto e altissimo mentre sulla porta apparve una sagoma tutta bianca. I
bottoni capirono subito che si trattava di un fantasma e zittirono
immediatamente.
Anche quella voce iraconda
ammutolì di paura e, dal rumore di passi veloci, capirono che il suo
proprietario se l’era data a gambe.
Con la quiete ritrovata, tornò
anche la luce e il fantasma non fece altro che togliersi la sua veste bianca e
posarla su una sedia. Ma a quel punto la sorpresa dei bottoni fu grande: chi
indossava la veste da fantasma? Era proprio lei, Rosa, la coraggiosa, che era
riuscita a far scappare il ladro! Rosa raccolse subito i bottoni e li rimise
nelle loro rispettive scatoline facendo ben attenzione ad assicurarsi che quelli
neri ci fossero tutti.
E, se voi aveste visto quella
sfilata di carnevale, avreste potuto sentire gli applausi e constatare l’orgoglio
dei bottoni neri mentre spiccavano sul bel vestito bianco di Pierrot che,
finalmente, Rosa era riuscita a confezionare.
E il nostro Cico era proprio
quello in alto, il primo, vicino al cuore.
Chi non è indifferente ai mali del mondo, se vuole, può firmare questa petizione.
Ancora un grazie alle gentili persone che passano di qui e tante cose belle a tutti.
Dalla sua ultima silloge "NELLE FALESIE DELL'ANIMA" ecco la poesia che racchiude la poetica di questo autore molto sensibile alla salvaguardia e all'attenzione del mondo dell'infanzia in ogni parte del ns pianeta.
C’era una volta un albero un po’
particolare, e vi dirò subito perchè:
questo albero… sapeva cantare! All’arrivo della primavera, dunque, al primo
tepore del sole, le sue tenere foglioline cominciavano ad aprirsi e intonavano
un coro che si espandeva per tutto il giardino.
Dapprima iniziavano
sommessamente, poi, man mano che crescevano e diventavano delle belle foglie
verdi, anche le loro voci diventavano sempre più sonore e armoniose rallegrando
così le giornate di quel luogo ameno.
Vicino a quest’albero canterino
c’era una di quelle piante grasse con quei tremendi aculei che sembravano
sempre pronti a colpire chi si avvicinava troppo. Ebbene questa pianta era
l’unica nel giardino che non apprezzava per niente le canzoni del nostro albero
e pertanto continuava a brontolare come una pentola di fagioli. – Verrà anche l’autunno – diceva tra sé –
così questa musica smetterà! -. E intanto diventava sempre più gonfia di stizza
e i suoi spini sembravano pronti a schizzar via per pungere qualche
malcapitato.
Verso settembre arrivò nel
giardino il primo venticello portando un po’ di tremore dappertutto.
La voce delle foglie dell’albero
canterino cominciò a indebolirsi. Allora il sole, impietosito, cercò di donare loro
tutto il calore di cui era capace facendole diventare splendenti come l’oro. E
così potevano continuare a gorgheggiare contente.
In ottobre passò da quelle parti
un signore molto distinto assieme ad un suo amico che indossava dei vestiti un
po’ larghi, aveva i capelli lunghi e amava dipingere quadri.
Giunti davanti all’albero che
sapeva cantare, si fermarono estasiati dallo splendore delle foglie che il sole
non smetteva di accarezzare.
- Che meraviglia! – disse il
signore elegante. – Davvero splendido! – replicò il pittore.
A quei complimenti le foglie
arrossirono di piacere e alcune svennero
per l’emozione, cadendo a terra.
- Domani potrai venir qui con il
tuo cavalletto e con i tuoi pennelli – disse il signore elegante al pittore.
- Verrò volentieri e ti ringrazio
– rispose questi.
- Ecco care, disse la pianta
grassa – domani ci faranno il ritratto. Potreste almeno per un giorno smettere
di cantare?
- Smettere di cantare? Perché? –
risposero le foglie - noi domani faremo
del nostro meglio per regalare a quei signori gentili le nostre più belle
melodie -. La pianta grassa bofonchiò rassegnata; tanto con quelle era proprio
inutile discutere!
L’indomani era una giornata
meravigliosa. Sullo sfondo del cielo turchese e alla luce del sole gli alberi
splendevano dei colori più belli e l’albero canterino era più luminoso che mai.
Arrivò il pittore con il suo
cavalletto sul quale sistemò una tela bianca di media grandezza; si sedette su
una panchina di fronte al nostro albero e, presi pennelli e tavolozza, iniziò a dipingere. Lo
spettacolo era davvero mozzafiato; le foglie arrossivano sempre di più nel
sentirsi così al centro dell’attenzione, e cantavano sommessamente.
Disse la pianta grassa: - meno
male che oggi almeno cantate più piano e non mi rompete i timpani con i vostri
strilli! –
Alla fine della giornata il
pittore regalò il quadro al suo amico che ne fu molto contento mentre la notte
abbassò le palpebre a tutti gli abitanti del giardino, che si addormentarono
serenamente.
L’autunno e l’inverno avanzavano
a grandi passi e il vento che li accompagnava faceva cadere le foglie di quasi
tutti gli alberi. Solo la pianta grassa rimaneva imperterrita, assieme alle
piante sempreverdi.
Anche le foglie canterine caddero
una ad una, e mentre si adagiavano sul terreno intorno al tronco dell’albero, continuavano
a cantare piano piano, perché sotto la terra, vicino alle radici, le loro sorelle
le ascoltavano ansiose di imparare bene le canzoni per poterle cantare la successiva
primavera.
La pianta grassa, che ormai non
poteva più sentirle, disse: - meno male
che almeno adesso posso dormire in pace –
e, distolto lo sguardo dai rami nudi dell’albero, cominciò a russare come un
trombone stonato.
In una bella casa, non molto
lontano dal giardino, quel signore elegante di cui abbiamo parlato prima, una
sera invitò a cena amiche ed amici con le rispettive famiglie. E, dopo la cena,
li condusse in salotto e mostrò loro il dipinto fatto dal suo amico all’albero
dai colori splendenti.
Tutti ne fecero gli elogi e lo
guardarono con ammirazione. Fra i presenti c’era anche una ragazzina che amava
molto dipingere e alla vista del quadro proruppe in una esclamazione di
meraviglia : - Ma è bellissimo! Quell’albero ha i colori dell’oro e sembra quasi
che sprigioni una musica! -. Non si era
resa conto, come noi sappiamo, di aver detto proprio la verità. E fu così che il
nostro albero potè continuare a cantare dal quadro in ogni stagione, ma solo le persone speciali riuscivano a sentirlo!