Forte e immacolata era la mia esistenza di marmorea pietra indifferente ai venti e alle tempeste Ma fui straziata un giorno da ignoti artigli che mi strapparono il cuore per condurlo intatto nelle grandi mani di un artista che mi diede forma di madre adagiando sul mio grembo la morte del mio unico figlio affinchè lo vegliassi in eterno Ed io il capo chinai.
Svilisce nell’attesa tenero ramo d’ulivo nell’orto solitario appena carezzato da un livido raggio di sole troppo freddo da sciogliere troppa miseria da sfamare troppi pensieri da slegare eppure l’albero della pace non teme il baco della morte regala gioia e forza ha radici e gemme che non conoscono sosta e invidia da quando il tempo scandisce il battito dell’universo e regola la natura la terra non sogna altro che d’incontrare il vero seme per coltivare il fiore dell’Amore.
C’era una volta un bosco che non
era un bosco qualsiasi, ma un bosco nel quale gli alberi, i sassi e gli
animali parlavano come gli esseri umani.
C’è anche da dire, però, che questo avveniva solamente di notte. Di giorno era
un bosco come tanti altri.
In quel bosco nessuno ci aveva mai messo piede
in quanto i suoi confini erano segnati da spessi rovi spinosi che scoraggiavano chiunque ad
avvicinarsi.
Nel paese, in fondo alla valle,
si diceva che in quel bosco crescesse il fiore della felicità e che chiunque
fosse riuscito a toccare tale fiore sarebbe stato felice per tutta la vita.
Come si potrà immaginare tantissime persone si erano messe in cammino per
entrare in quel bosco in cerca di quel fiore speciale. Le persone arrivavano
piene di entusiasmo e portavano con sé anche delle falci e delle accette per
abbattere i rovi, poichè sapevano quanto erano spessi, intricati e pungenti.
Il fatto è che nessuno riuscì
mai ad aprirsi un varco per entrare in quel bosco poichè nel medesimo istante
in cui il rovo veniva violentemente reciso, un altro più forte ed irto di spine
si ergeva davanti a colui che tentava di passare.
Un giorno arrivò da quelle parti
un giovane che amava molto passeggiare in mezzo ai boschi ed era di
temperamento mite e molto curioso. Notò
quei rovi spessi ed intricati e cercò fra di loro un passaggio costeggiando
quel luogo selvatico lungo il sentiero che lo circondava. Cammina e cammina, il
tempo passava, ma il giovane non trovò proprio nessun varco per poter entrare
in quel bosco che stava diventando per lui assai misterioso. Si
accorse che il sole stava tramontando e la notte cominciava a stendere il suo
scuro mantello sopra ogni cosa. Pensò che doveva tornare sui suoi passi e
correre velocemente verso il paese. Per fortuna era una notte limpida e serena
illuminata dalla luna piena che, come una regina, troneggiava nel cielo
stellato.
Mentre stava accelerando il
passo girò il capo nuovamente verso quel bosco inaccessibile e gli parve di
udire delle voci. Si fermò di botto e
rimase in ascolto.
-Felicità, ora canteremo per te – proferì una
vocina lieve lieve.
-C’è la luna, possiamo starcene all’aperto –
dissero altre voci.
Il nostro amico, che si chiamava
Otto, non credeva alle proprie orecchie e si alzò sulle punte dei piedi allungando
anche il collo per vedere da dove provenivano
quelle voci. In quel momento perse leggermente l’equilibrio e, nel ricomporsi,
provocò un piccolo rumore sul sentiero sassoso.
-C’è qualcuno là fuori – sentì dire dall’interno
dei rovi.
Siccome
Otto era anche un giovane coraggioso, disse:
-Chi si nasconde fra i rovi? Non fatemi del male
perché ho con me il fucile e sarà peggio per voi –
-Oh, non temere – rispose una vocina squillante –
noi non facciamo male a nessuno, caso mai sono gli umani che spesso fanno del
male a noi -.
-Gli umani? – chiese Otto.
-Si, gli umani, vogliono entrare nel nostro bosco
e ci fanno tanto male con le loro falci ed accette. –
-Ma voi chi siete? – chiese il nostro amico.
-Noi siamo quello che vedi davanti ai tuoi occhi –
risposero. Allora Otto sgranò i suoi occhioni scuri e vide fra i rovi
un’infinità di occhietti vispi puntati su di lui.
-Io non capisco chi voi siate – disse - posso
entrare per vedere meglio? – chiese.
-Solo se poggi il fucile per terra e liberi le
mani da ogni cosa – risposero.
Allora Otto poggiò il fucile per
terra e cominciò a spostare delicatamente i rami spinosi, facendosi largo,
finchè giunse davanti ad una piccola radura. Si guardò intorno, ma non vide
anima viva, solo quegli occhietti vispi che spuntavano da ogni tronco, ramo e
sasso là intorno.
All’improvviso si levò nell’aria
un coro che intonò una dolcissima canzone mentre una brezza leggera muoveva i
fili d’erba e le fronde degli alberi come in una danza.
In quel momento il prato fu
illuminato da una miriade di fiori bianchi che luccicavano ai raggi della luna.
Le voci del coro si smorzarono
lentamente e intorno si levò un leggero brusio.
Allora, una vecchia quercia che
stava di fronte al nostro amico, così parlò:
-Caro giovane Otto, questa notte hai visto dove vivono
i fiori della felicità. Sono gelosamente custoditi in questo bosco perché non
vogliamo che vengano sciupati nel mondo, là fuori. Ora, se tu ne coglierai uno,
potrai essere felice per tutta la vita e così pure i tuoi figli e i figli dei
tuoi figli, ma ad una condizione: dovrai sempre seguire la via del bene e
fuggire dai sentieri del male. La via del bene è quella che ti indicherà il tuo
cuore, quella del male quella che ti indicherà il tuo egoismo. Potrai permettere di toccare il fiore della
felicità a tutte le persone che lo desiderano – continuò la vecchia quercia –
ma dovrai precisare che l’effetto della felicità svanirà se non osservano ciò
che ti ho appena detto -.
Il giovane Otto allora si chinò
e raccolse uno di quei fiori bianchi:
-Farò come dici tu, lo prometto, grazie – disse.
Nel frattempo stava ormai albeggiando e Otto
sentì il desiderio di tornare alla sua casa; si girò per vedere se c’era ancora
il piccolo varco fra i rovi e, riconosciutolo, si avviò con passo deciso. Gli
occhietti erano spariti e una brezza leggera lo accompagnava fin sull’orlo
della stradina.
Era fuori. E aveva in mano il fiore della
felicità.
Giunto al paese raccontò la sua
avventura, ma non tutti gli credettero.
Taluni però vollero toccare quel
fiore e promisero di osservare le raccomandazioni che il giovane aveva ricevuto
dalla vecchia quercia.
E si sa che furono loro, poi, ad
assaporare il raro e squisito sapore della felicità. - Giovanna Giordani -
Le urla si confondevano con il crepitio
del fuoco e il rumore della folla, finché il fumo soffocò il respiro e la
vittima reclinò il capo.
Le fiamme si levavano alte nel cielo
come se volessero penetrarne il mistero, ma la sofferenza era finita, la
tortura era stata quasi peggiore del rogo. Ed ora, poteva vedere dall’alto quel
mucchietto di ceneri fumanti. Le guardò furtivamente perché un vento
tiepido la stava portando via, chissà dove. Forse nel paese delle streghe.
Perché, lei, era una strega.
Gliel’avevano detto e urlato in
mille modi. Lei non capiva. Aveva solo portato al castello un
infuso d’erbe per calmare la febbre del figlio del conte. Anche suo
figlio ne aveva avuto beneficio ed ora l’accusavano di essere una strega e di
avere intrallazzi col diavolo. Non capiva e cercava di svincolarsi dai lacci che le facevano sanguinare
le membra. Il dolore era insopportabile. Avrebbe fatto e detto qualsiasi cosa,
per farlo cessare.
“Confessi?” – urlava quell’uomo vestito di
nero. “Sì” – rispondeva lei, stremata, con un soffio di voce.
“Sentite?” – urlava l’uomo vestito di nero – “Ha confessato. Deve morire!”.
Dopo il rogo della strega, quella
sera, il giudice e la corte cenarono come al solito nella stanza riccamente
addobbata, ma il giudice inquisitore stranamente non aveva molto
appetito. Sentiva un peso sul cuore.
“Anche per oggi, il nostro
dovere è compiuto!” – disse un membro della corte. – “Il diavolo è stato sconfitto!”.
Il giudice Inquisitore sentiva
un cerchio alla testa e riuscì solo ad annuire leggermente, poi si spostò tutto
in avanti e il suo corpo pesante si accasciò con un tonfo sul piatto facendo
schizzare il contenuto sui visi circostanti.
Si alzarono tutti inorriditi, e fu
chiamato immediatamente il medico di corte che ne accertò il decesso per
arresto cardiaco. Lo spirito del giudice inquisitore si stava
allontanando dalla stanza volgendo lo sguardo incredulo al suo corpo riverso,
e, quando fu all’esterno del castello, sentì un vento caldo che lo sospingeva
senza che potesse opporre resistenza finché scorse una processione di
anime che procedeva lentamente. L’ultima della fila, gli parve di
riconoscerla. Certo. Era la strega.
Non poté fare a meno di incrociare il suo sguardo evanescente nel quale
fluttuava un lago di serenità. Lui, invece, sentiva sempre quel peso sul
cuore e, nei suoi occhi velati, lei poté intravvedere un lampo di terrore.
Poi la processione si divise in due
diverse direzioni.
L’anima del giudice inquisitore e quella della strega non si rividero mai
più.