- Nessuno mi
crederebbe, mio caro Fulmine – disse il cacciatore guardando il suo cane che,
scodinzolando, ricambiava lo sguardo con occhi umidi di devozione.
Caricò in spalla il
fucile e s’incamminò verso casa. La musicalità dell’acqua del ruscello faceva
da sottofondo ai consueti rumori del bosco e accompagnava il suo passo
appesantito dall’equipaggiamento di caccia.
Quello che aveva
visto quel mattino occupava interamente la sua mente.
Non poteva pensare ad
altro.
Si voltò ancora una
volta a guardare il ciglio di quel burrone. Cercò di dare un ordine cronologico
agli eventi accaduti in così poco tempo.
- Tu non hai colpa
Fulmine – disse. - Tu non potevi sapere. Hai fatto solo il tuo
dovere: stanare la preda affinchè io la potessi colpire -.
Si ricordò del cane
che correva e si fermava ad intermittenza. Poi aveva sentito un frullo
d’ali sopra la testa ed immediatamente aveva fatto fuoco. Era
seguito un silenzio di ghiaccio. Sembrava che il bosco avesse smesso di
respirare.
Il cane si era
portato festosamente sull’orlo del burrone.
- Ahi, laggiù
non la potrai recuperare la tua preda – gli aveva gridato. Poi lo aveva
raggiunto e si era sporto pure lui a guardare. Ciò che si presentò ai suoi
occhi lo aveva riempito di stupore e di angoscia insieme. Il cuore gli batteva
all’impazzata e un sudore freddo lo aveva pervaso per tutto il corpo. Era
rimasto così, impietrito, per un tempo indefinito. Mai avrebbe dimenticato
quella visione.
Una figura femminile
giaceva, inerte, fra i rovi, in fondo al burrone.
Con le mani tremanti
aveva estratto dallo zaino il canocchiale per verificare meglio.
Il colore delle vesti
si confondeva con quello delle foglie degli arbusti, ma quello che lui
poteva vedere chiaramente era il viso. Diafano. Occhi chiusi. La bocca
semiaperta in una smorfia di dolore. Immobile. Sulla fronte il segno dello
sparo e un sangue rosato che scendeva in rigagnoli sul viso andando a
disperdersi dietro il collo.
Tutto questo non
riusciva, tuttavia, a deturpare la bellezza che quell’immagine sprigionava.
Mai aveva visto nulla
di così bello e doloroso assieme.
La fissava,
ipnotizzato, mentre sentiva nella sua mente qualcosa che si apriva, qualcosa
che risaliva in superficie da profondità mai sospettate. Era una strana
sensazione, un fastidio incontrollabile, un ancestrale disagio da soffocare, da
rimuovere. Barcollava. Un appiglio… cercava disperatamente un appiglio.
Si era inginocchiato
per calmare il tremore delle gambe e, dopo aver riposto il canocchiale, aveva
serrato il capo fra le mani.
All’improvviso si era
levato un forte vento facendo vibrare il bosco e trascinando con sè tutto ciò
che non si poteva opporre alla sua forza.
Il cane gli si era
accucciato accanto, impaurito, mentre egli si riparava il viso con il bavero
della giacca, rimanendo immobile, in attesa che tornasse la quiete.
Poi, finalmente, il
vento si era calmato e il bosco aveva ritrovato la sua pace.
- Devo denunciare
l’accaduto – aveva pensato. - E’ colpa mia. O forse no. Io ho sparato, è vero,
ma ho sparato in aria, ad un volatile. Può averla colpita qualcun altro prima
di me. Ma io non posso lasciarla laggiù. Devono portarla via. Dio mio! -.
Alzato il capo, di
nuovo aveva guardato giù.
La visione era
sparita.
Sui rovi, dove era
caduta la figura femminile ferita a morte, erano rimasti impigliati dei petali
di fiori abbandonati da quella folata di vento.
Aveva sentito il suo
cuore gonfiarsi e restringersi come un mantice e, attonito, cercava di capire.
Ma nella sua mente tutto era fermo ed immobile come la visione di quel viso che
non lo abbandonava.
- E’ stato un
brutto sogno – si disse. - Un sogno ad occhi aperti -.
Presto sarebbe
arrivato a casa. Gli avrebbero chiesto come mai così in anticipo. Ma lui non
avrebbe mai potuto spiegare a nessuno il perché.
- Capisci, Fulmine –
diceva - se io raccontassi ciò che ho visto perderei senz’altro la mia
buona reputazione, mi prenderebbero per un pazzo visionario, la mia credibilità
sarebbe compromessa per sempre. Mi sembra già di sentire le loro risate di
scherno.
Io non potrò, non
dovrò dirlo a nessuno. Questo sarà per sempre il mio tremendo segreto. Solo
mio.
Credo, inoltre, che
smetterò di andare a caccia, troverò qualche scusa, dirò che l’umidità del
bosco mi procura i reumatismi. E’ una scusa credibile.
Stammi
vicino, Fulmine, perché oggi, io e te… abbiamo ucciso… una fata -.
- Giovanna Giordani -
Ma poi le fate non muoiono per così poco, proprio come le poetesse. Sembra che il cacciatore prepotente abbia interrotto il loro volo e invece le fate e le poetesse scompaiono da quel finto cielo per entrare in un azzurro migliore, dove sono comprese e amate anch'esse.
RispondiEliminaE lui fa bene a tacere per sempre sull'accaduto e a smettere di andare a caccia ad uccidere con la scusa dei reumatismi. Io, però, glieli auguro veri, forse imparerà qualcosa.
Il racconto è scritto molto bene e dice molte cose a chi vi legge dentro.
Thank you Mimma! You are wonderful!
RispondiEliminaCara Giovanna, racconto delizioso.
RispondiEliminaBravissima!
Graziella
Vale anche per te, Graziella, quanto detto a Mimma! bye
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