lunedì 20 maggio 2013

LA PREDA




- Nessuno mi crederebbe, mio caro Fulmine – disse il cacciatore guardando il suo cane che, scodinzolando, ricambiava lo sguardo con occhi umidi di devozione.

Caricò in spalla il fucile e s’incamminò verso casa. La musicalità dell’acqua del ruscello faceva da sottofondo ai consueti rumori del bosco e accompagnava il suo passo appesantito dall’equipaggiamento di caccia.

Quello che aveva visto quel mattino occupava interamente la sua mente.
Non poteva pensare ad altro.
Si voltò ancora una volta a guardare il ciglio di quel burrone. Cercò di dare un ordine cronologico agli eventi accaduti in così poco tempo.
- Tu non hai colpa Fulmine – disse. -  Tu non potevi sapere. Hai fatto solo il tuo dovere:  stanare la preda affinchè io la potessi colpire -.
Si ricordò del cane che correva e si fermava ad intermittenza. Poi aveva sentito un frullo d’ali  sopra la testa ed immediatamente  aveva fatto fuoco. Era seguito un silenzio di ghiaccio. Sembrava che il bosco avesse smesso di respirare.
Il cane si era portato festosamente sull’orlo del burrone.
 - Ahi, laggiù non la potrai recuperare la tua preda – gli aveva gridato. Poi lo aveva raggiunto e si era sporto pure lui a guardare. Ciò che si presentò ai suoi occhi lo aveva riempito di stupore e di angoscia insieme. Il cuore gli batteva all’impazzata e un sudore freddo lo aveva pervaso per tutto il corpo. Era rimasto così, impietrito, per un tempo indefinito. Mai avrebbe dimenticato quella visione.
Una figura femminile giaceva, inerte, fra i rovi, in fondo al burrone.
Con le mani tremanti aveva estratto dallo zaino il canocchiale per verificare meglio.
Il colore delle vesti si confondeva con quello delle foglie degli arbusti, ma quello che lui  poteva vedere chiaramente era il viso. Diafano. Occhi chiusi. La bocca semiaperta in una smorfia di dolore. Immobile. Sulla fronte il segno dello sparo e un sangue rosato che scendeva in rigagnoli sul viso andando a disperdersi dietro il collo.
Tutto questo non riusciva, tuttavia, a deturpare la bellezza che quell’immagine sprigionava.
Mai aveva visto nulla di così bello e doloroso assieme.
La fissava, ipnotizzato, mentre sentiva nella sua mente qualcosa che si apriva, qualcosa che risaliva in superficie da profondità mai sospettate. Era una strana sensazione, un fastidio incontrollabile, un ancestrale disagio da soffocare, da rimuovere. Barcollava. Un appiglio… cercava disperatamente un appiglio.
Si era inginocchiato per calmare il tremore delle gambe e, dopo aver riposto il canocchiale, aveva serrato il capo fra le mani.
All’improvviso si era levato un forte vento facendo vibrare il bosco e trascinando con sè tutto ciò che non si poteva opporre  alla sua forza.
Il cane gli si era accucciato accanto, impaurito, mentre egli si riparava il viso con il bavero della giacca, rimanendo immobile, in attesa che tornasse la quiete.
Poi, finalmente, il vento si era calmato e il bosco aveva ritrovato la sua pace.
- Devo denunciare l’accaduto – aveva pensato. - E’ colpa mia. O forse no. Io ho sparato, è vero, ma ho sparato in aria, ad un volatile. Può averla colpita qualcun altro prima di me. Ma io non posso lasciarla laggiù. Devono portarla via. Dio mio! -.
Alzato il capo, di nuovo aveva guardato giù.
La visione era sparita.
Sui rovi, dove era caduta la figura femminile ferita a morte, erano rimasti impigliati dei petali di fiori  abbandonati da quella folata di vento.
Aveva sentito il suo cuore gonfiarsi e restringersi come un mantice e, attonito, cercava di capire. Ma nella sua mente tutto era fermo ed immobile come la visione di quel viso che non lo abbandonava.
-  E’ stato un brutto sogno – si disse. - Un sogno ad occhi aperti -.
Presto sarebbe arrivato a casa. Gli avrebbero chiesto come mai così in anticipo. Ma lui non avrebbe mai potuto spiegare a nessuno il perché.
- Capisci, Fulmine – diceva - se io raccontassi  ciò che ho visto perderei senz’altro la mia buona reputazione, mi prenderebbero per un pazzo visionario, la mia credibilità sarebbe compromessa per sempre. Mi sembra già di sentire le loro risate di scherno.
Io non potrò, non dovrò dirlo a nessuno. Questo sarà per sempre il mio tremendo segreto. Solo mio.
Credo, inoltre, che smetterò di andare a caccia, troverò qualche scusa, dirò che l’umidità del bosco mi procura i reumatismi. E’ una scusa credibile.
Stammi vicino, Fulmine, perché oggi, io e te… abbiamo ucciso… una fata -.

- Giovanna Giordani -



4 commenti:

  1. Ma poi le fate non muoiono per così poco, proprio come le poetesse. Sembra che il cacciatore prepotente abbia interrotto il loro volo e invece le fate e le poetesse scompaiono da quel finto cielo per entrare in un azzurro migliore, dove sono comprese e amate anch'esse.
    E lui fa bene a tacere per sempre sull'accaduto e a smettere di andare a caccia ad uccidere con la scusa dei reumatismi. Io, però, glieli auguro veri, forse imparerà qualcosa.
    Il racconto è scritto molto bene e dice molte cose a chi vi legge dentro.

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  2. Cara Giovanna, racconto delizioso.
    Bravissima!
    Graziella

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  3. Vale anche per te, Graziella, quanto detto a Mimma! bye

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