domenica 26 maggio 2013

GIRO INESAURIBILE DI VITA

Oggi è una giornata splendida e spero che il sole sciolga in fretta la neve sopra il verde dei boschi alle falde delle montagne.
In questa rasserenante cornice sono onorata e felice di pubblicare questa splendida poesia di Graziella Cappelli di cui sono orgogliosamente  la dedicataria.
Un regalo supergradito!!!
Grazie deliziosa poetessa Graziella!!!!

 

Fresca e cristallina
è la sorgente,
nasce improvvisa
zampilla tra i sassi e
cattura i raggi del sole.
Gioiosa spumeggia
salta e scende,
si allarga e prende forma.
Corre, senza sosta
lungo i pendii
di rocce antiche e levigate.
Bagna rovi e cespugli,
si insinua nel muschio
odoroso di foglie,
schiamazza e trasparente
si riposa in pozze ombrose
di larici ed abeti.
Bacche si affacciano
negli specchi d'aghi galleggianti,
inquieta scroscia
tra rupi assolate.
Sembra arrivata. E' presto.
Così si increspa e indugia
tra le felci, incantata, guarda
corolle di giunchiglie, prende
foglie e monete di sassi,
maestosa si trascina sotto i ponti.
Ride del suo fragore,
nuvole nebulizzate intorno.
Canta nello spettacolo
senza sipario,
attira battiti d'ali,
stupisce ancora
occhi di animali furtivi.
Poi stanca si placa,
sonnolenta si snoda
e si allunga alla pianura.
Solitaria aspetta,
compagna del cielo aperto.
Si affacciano casolari,
cipressi sentinella,
il vento l'accarezza
e la incoraggia nel suo
giro inesauribile di vita.





- Graziella Cappelli -






venerdì 24 maggio 2013

IL MALE

.....non uccidere...

Il male nasce forse
dal fulcro della terra
nella rabbia del fuoco
 prigioniero
oppure 
dal gelo dei ghiacciai
o dentro ai temporali

Il male nasce forse
nella smania del vento
di scuotere ogni cosa

Forse
ha nascosto un gene
negli aridi deserti
o in fondo ai mari

Non nasce certo
in chiarità di cieli
o dentro ai fiori
nei voli d'aquiloni
o nei colori degli arcobaleni

Perchè
più d'un umano
s'imbatte nel suo ghigno
e cade vittima
del suo invisibile pugnale?

Chissà da dove nasce
il male.

- Giovanna Giordani -

lunedì 20 maggio 2013

LA PREDA




- Nessuno mi crederebbe, mio caro Fulmine – disse il cacciatore guardando il suo cane che, scodinzolando, ricambiava lo sguardo con occhi umidi di devozione.

Caricò in spalla il fucile e s’incamminò verso casa. La musicalità dell’acqua del ruscello faceva da sottofondo ai consueti rumori del bosco e accompagnava il suo passo appesantito dall’equipaggiamento di caccia.

Quello che aveva visto quel mattino occupava interamente la sua mente.
Non poteva pensare ad altro.
Si voltò ancora una volta a guardare il ciglio di quel burrone. Cercò di dare un ordine cronologico agli eventi accaduti in così poco tempo.
- Tu non hai colpa Fulmine – disse. -  Tu non potevi sapere. Hai fatto solo il tuo dovere:  stanare la preda affinchè io la potessi colpire -.
Si ricordò del cane che correva e si fermava ad intermittenza. Poi aveva sentito un frullo d’ali  sopra la testa ed immediatamente  aveva fatto fuoco. Era seguito un silenzio di ghiaccio. Sembrava che il bosco avesse smesso di respirare.
Il cane si era portato festosamente sull’orlo del burrone.
 - Ahi, laggiù non la potrai recuperare la tua preda – gli aveva gridato. Poi lo aveva raggiunto e si era sporto pure lui a guardare. Ciò che si presentò ai suoi occhi lo aveva riempito di stupore e di angoscia insieme. Il cuore gli batteva all’impazzata e un sudore freddo lo aveva pervaso per tutto il corpo. Era rimasto così, impietrito, per un tempo indefinito. Mai avrebbe dimenticato quella visione.
Una figura femminile giaceva, inerte, fra i rovi, in fondo al burrone.
Con le mani tremanti aveva estratto dallo zaino il canocchiale per verificare meglio.
Il colore delle vesti si confondeva con quello delle foglie degli arbusti, ma quello che lui  poteva vedere chiaramente era il viso. Diafano. Occhi chiusi. La bocca semiaperta in una smorfia di dolore. Immobile. Sulla fronte il segno dello sparo e un sangue rosato che scendeva in rigagnoli sul viso andando a disperdersi dietro il collo.
Tutto questo non riusciva, tuttavia, a deturpare la bellezza che quell’immagine sprigionava.
Mai aveva visto nulla di così bello e doloroso assieme.
La fissava, ipnotizzato, mentre sentiva nella sua mente qualcosa che si apriva, qualcosa che risaliva in superficie da profondità mai sospettate. Era una strana sensazione, un fastidio incontrollabile, un ancestrale disagio da soffocare, da rimuovere. Barcollava. Un appiglio… cercava disperatamente un appiglio.
Si era inginocchiato per calmare il tremore delle gambe e, dopo aver riposto il canocchiale, aveva serrato il capo fra le mani.
All’improvviso si era levato un forte vento facendo vibrare il bosco e trascinando con sè tutto ciò che non si poteva opporre  alla sua forza.
Il cane gli si era accucciato accanto, impaurito, mentre egli si riparava il viso con il bavero della giacca, rimanendo immobile, in attesa che tornasse la quiete.
Poi, finalmente, il vento si era calmato e il bosco aveva ritrovato la sua pace.
- Devo denunciare l’accaduto – aveva pensato. - E’ colpa mia. O forse no. Io ho sparato, è vero, ma ho sparato in aria, ad un volatile. Può averla colpita qualcun altro prima di me. Ma io non posso lasciarla laggiù. Devono portarla via. Dio mio! -.
Alzato il capo, di nuovo aveva guardato giù.
La visione era sparita.
Sui rovi, dove era caduta la figura femminile ferita a morte, erano rimasti impigliati dei petali di fiori  abbandonati da quella folata di vento.
Aveva sentito il suo cuore gonfiarsi e restringersi come un mantice e, attonito, cercava di capire. Ma nella sua mente tutto era fermo ed immobile come la visione di quel viso che non lo abbandonava.
-  E’ stato un brutto sogno – si disse. - Un sogno ad occhi aperti -.
Presto sarebbe arrivato a casa. Gli avrebbero chiesto come mai così in anticipo. Ma lui non avrebbe mai potuto spiegare a nessuno il perché.
- Capisci, Fulmine – diceva - se io raccontassi  ciò che ho visto perderei senz’altro la mia buona reputazione, mi prenderebbero per un pazzo visionario, la mia credibilità sarebbe compromessa per sempre. Mi sembra già di sentire le loro risate di scherno.
Io non potrò, non dovrò dirlo a nessuno. Questo sarà per sempre il mio tremendo segreto. Solo mio.
Credo, inoltre, che smetterò di andare a caccia, troverò qualche scusa, dirò che l’umidità del bosco mi procura i reumatismi. E’ una scusa credibile.
Stammi vicino, Fulmine, perché oggi, io e te… abbiamo ucciso… una fata -.

- Giovanna Giordani -



sabato 18 maggio 2013

LA PIOGGIA NEL PINETO





S'impara fin dai primi anni di scuola e trovo sempre meravigliosa questa poesia di una musicalità squisita


Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove sui mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
sui ginepri folti
di coccole aulenti,
piove sui nostri volti
silvani,
piove sulle nostre mani
ignude,
sui nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come un foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancora trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i malleoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove sulle nostre mani
ignude,
sui nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.



- Gabriele D'Annunzio -




giovedì 16 maggio 2013

DOPO UN GRANDE DOLORE





Dopo un grande dolore viene un senso solenne
stanno composti i nervi, come tombe,
il cuore irrigidito chiede se proprio lui
soffri tanto? Fu ieri o qualche secolo fa?

I piedi vanno attorno come automi
per un'arida via
di terra o d'aria o di qualsiasi cosa
indifferenti ormai:
una pace di quarzo, come un sasso.

Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
la ricorda come gli assiderati
rammentano la neve
prima il freddo, poi lo stupore, infine
l'inerzia.

- EMILIY DICKINSON -

After a great pain, a formal feeling comes
the nerves sit ceremonious, like tombs
the stiff heart questions was it he, that bore,
and yesterday or centuries before?

The feet, mechanical, go round
a wooden way
of ground, or air, or ought
regardless grown
a quartz contentment, like a stone

This is the huor of lead
remembered, if outlived
as freezing persons, recollect the snow
first - chill - then stupor - then the letting go.

domenica 12 maggio 2013

LA CASA DELLE FATE



Nella casa della mia infanzia il sole faceva capolino solo in rari momenti della giornata.
Al cortile, poi, chiuso com'era fra le mura delle case vicine, era preclusa la gioia di quei raggi benefici.
Solo nelle giornate di cielo terso mi incantavo a guardare il quadrato di luce azzurra che spiccava fra i tetti. Sembrava una piscina rovesciata. Veniva voglia di tuffarsi dentro se non altro per sfuggire all'odore di muffa che, in quel luogo, impregnava le narici.
Mia madre avrebbe voluto mettere dei gerani sul davanzale della finestra che dava su quel cortile - tanto per dare un po' di colore all'ambiente - diceva. Una volta ci aveva provato. L'attesa di vedere i bei fiori rosa, però, non era stata premiata. I gerani avevano partorito solo grandi monocrome foglie verdi.
Quel luogo angusto era però rallegrato ogni primavera dall'arrivo delle rondini.
Costruivano i loro nidi sotto i tetti o sotto i poggioli di legno. Quando mia madre si accorgeva del loro arrivo ce lo annunciava felice come se fossero arrivati dei cari parenti. Io penso che si sentisse un po' a loro affine. Le rondini, del resto, come lei, non facevano altro che prodigarsi per i loro figli.
Quel piccolo cortile era lo spazio più vicino che avevamo per giocare. E cercavamo di sfruttarlo al meglio. Io giocavo a palla facendola rimbalzare sul muro oppure, se eravamo in quattro o cinque, giocavamo ad "asino". Mia madre ci lasciava fare per un po', ma poi ci richiamava perché aveva paura che disturbassimo i vicini. Sapeva che il pittore di fronte non gradiva i nostri strilli. Gli disturbavano la concentrazione. Poi c'era un altro problema: quella scala pericolante che portava all'appartamento disabitato del lato Nord. Appena mia madre si accorgeva che mettevamo il piede sul primo gradino ci urlava di non continuare perché sarebbe uscita di sicuro la strega da una di quelle porte di legno che davano sul poggiolo. Noi rimanevamo un po' perplessi, dibattuti fra curiosità e timore. Ma ubbidivamo. Perché sapevamo che era meglio ubbidire. E basta.
Appena poteva mia madre ci portava fuori, in qualche posto tranquillo, in mezzo al verde, nei dintorni del paese.
- E' per la vostra salute - diceva.
Lì, potevamo correre e giocare felici all'aria aperta. Venivano anche dei nostri coetanei e passavamo dei bei pomeriggi. Mia madre sferruzzava seduta su un muretto conversando con altre mamme che avevano avuto la stessa idea.
Spesso, per raggiungere quei posti, percorrevamo una strada bianca e polverosa che passava per le campagne.
Arrivati ad un certo punto, adiacente alla strada e all'inizio della distesa delle campagne, si presentava allo sguardo del passante una casetta dalle pareti color rosa pallido, leggermente scrostate, con le imposte di un verde oliva scolorite qua e là.
Quella casetta si distingueva dalle altre del paese per la sua posizione isolata e per il suo stile vagamente signorile. Era senz'altro disabitata. Le imposte erano sempre chiuse e appariva, ai miei occhi di bambina, come qualcosa di prezioso ed inspiegabilmente abbandonato.
Stava lì, come una nobile vecchia signora pensierosa, immobile, in un suo dignitoso silenzio.
- Non ci abita nessuno in quella casa? - chiedevo a mia madre.
- No, non ci abita nessuno - Rispondeva.
- Come mai? - insistevo.
- Perché… quella è… la casa delle fate - replicava tranquilla e serena mia madre.
- E le fate non si vedono? - continuavo incuriosita.
- No, le fate non si fanno mai vedere dagli uomini - Era la risposta.
- Nessuno può entrare lì dentro? -
- No, guai, le fate si arrabbierebbero moltissimo -.
Mi bastava così. Non volevo andare oltre. Era meglio fermarsi lì. Non volevo sciorinare le altre domande che affollavano la mia mente. Le ricacciavo tutte indietro. Lei aveva detto così. E io volevo crederci. Silenzio, quindi e…via con la fantasia!
Immaginavo un turbinio di veli e uno scintillio di colori dentro le misteriose stanze della casetta rosa.
Tutto, oltre quelle imposte chiuse, doveva essere evanescente e affascinante. E poi, quello che potevo immaginare io era probabilmente ben poca cosa in confronto al mondo meraviglioso che doveva esserci là dentro.
All'interno di quella casa ogni cosa doveva essere stupefacente e tanto diversa da quello che si poteva vedere nelle normali nostre case. Perfino i fiori nei vasi, probabilmente, erano fiori particolari che solo le fate sapevano dove raccogliere.
Ero sicura che la loro vita si svolgeva in un armonioso intreccio di serenità, pace e benessere.
E tutto questo era precluso ai comuni mortali.
Mentre oltrepassavo la casetta, a volte giravo indietro il capo per vedere se, per qualche provvidenziale sbadataggine di qualche fata, un lembo di velo si fosse impigliato da qualche parte. Macchè, mai niente. Le fate erano molto furbe e sapevano bene come non farsi scoprire.
Poi, nella concretezza dei giochi con i coetanei, per un po' tutto questo veniva accantonato negli angoli reconditi della mente, ma quando si ritornava a casa, passando davanti alla "casa delle fate" mi sembrava che perfino gli ultimi raggi di sole indugiassero su quelle imposte superbamente chiuse, quasi che anche loro avessero voglia di penetrare, come me, in quel mondo proibito.
Intanto le stagioni si avvicendavano, calamitando i nostri giorni e i nostri anni.
La "casa delle fate" era sempre là. Le imposte chiuse. I colori sempre più sbiaditi.
Le vicende della vita mi portarono fuori dal mio paese.
Ci ritorno appena posso.
Vado al cimitero a salutare mia madre. L'ultima volta ho voluto percorrere la vecchia strada al limitare delle campagne. Ora è una grande strada asfaltata. Ho cercato con lo sguardo "la casa delle fate". Ma la casetta rosa dalle imposte verde oliva, ahimè, non c'è più! Al suo posto sorge una bella casa moderna. Rallentando l'andatura posso notare, su un terrazzino, un triciclo e dei giochi.
D'impulso accelero. Qualche minuto più tardi, mia madre mi sorride dalla foto della lapide. Ricambio, con la solita strizza al cuore.
- Hanno distrutto la casa delle fate - le dico. - E i bambini che giocano nella nuova casa, non lo sapranno mai -.

- Giovanna Giordani -

venerdì 10 maggio 2013

L'UOMO CHE ANDO'

Una, fra le mie preferite, delle innumerevoli bellissime poesie di Cristina Bove


L'uomo che andò
lontano
nei silenzi
impietriti delle sfingi
a cercare il suo dio
    viene a posare
    stanco
    il suo domani
    nella casa di maggio

ci sono rose
ai cancelli e rose
alle ringhiere

     e chi aspetta
     chi torna
     muove l'ombra
     calante sui gradini

l'ombra che avanza
entrando
l'ombra che ne sta
uscendo

     si passano invisibili
confini

e le rose fioriscono
e appassiscono
nello stesso mattino...

- Cristina Bove -



martedì 7 maggio 2013

QUESTA MUSICA TRISTE



Si leva
dai fiori appassiti
dalle crepe dei muri
e dai passi sfiniti

Inonda i pensieri
e singhiozza 
l’oltraggio
dei voli stroncati
dai maghi cattivi

E’ il dono
di un angelo buono
questa musica triste
che bacia
e accarezza
il dolore del mondo

- Giovanna Giordani -

domenica 5 maggio 2013

L'INCANTESIMO DI LADY OF SHALOTT

(sonetto liberamente ispirato al poema di Alfred Tennyson)


Lady of Shalott distolse il suo bel viso
dallo specchio che ruppe con furore
lei di fuggire aveva ormai deciso
dalla torre rinchiusa senza amore

Lancillotto avea visto all’improvviso
apparire nel sole in gran splendore
ma il fiume lo teneva a lei diviso
e un sortilegio le spezzava il cuore

Lady of Shalott il proprio nome scrisse
sul fianco della barca preparata
perché, almeno quello, non morisse

Lungo il fiume iniziò la traversata
verso di  lui che nel vederla disse
- è bella ed era forse innamorata -

- Giovanna Giordani -